Il Corpo dell´Icona
Napoli 1971 “La rivoluzione siamo noi”: un artista ed un´immagine che diventano “Icona”.
Di là dall´approccio e tenendone presente gli aspetti iconici, la problematica entro la quale si muove l´arte fa tutt´uno con le questioni dell´immagine.
Tommaso d´Aquino poneva il problema in questi termini: “L´immagine può essere considerata come oggetto particolare, o come immagine di un altro; nel primo caso l´oggetto è la cosa stessa che al contempo ne rappresenta un´altra, nel secondo l´aspetto dominante è ciò che l´immagine rappresenta.”
Sembra che l´attenzione si rivolga o all´immagine in se stessa – all´immagine come fine – o a ciò che l´immagine rappresenta – l´immagine come mezzo. Anche Wittgenstein nelle “Ricerche filosofiche” ripropone il problema dell´immagine partendo da una “logica–rappre–sentativa”, ponendo la sua riflessione in un problema di natura estetica: “Chi dipinge non deve dipingere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di reale?
Ebbene, qual’è l´oggetto del dipingere: l´immagine di un uomo (per esempio) o l´uomo che l´immagine rappresenta?”.
La rappresentazione logica implica qualcosa che si mostra, che si manifesta e nel manifestarsi resta “altro” dalla rappresentazione stessa. Così nel presentare se stessa, l´immagine mostra l´altro del visibile, del rappresentabile. Se questo è il tratto caratterizzante l´icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Wittgenstein sull´immagine si riferiscono non all´immagine come “copia” della realtà, bensì all’immagine intesa come “icona”. Quindi non è stata l´arte astratta a mettere per prima in opera la “presensibilità” del pittorico contro la sua “rappresentabilità”, dal momento che il rapporto tra presentazione e rappresentazione appartiene all´essenza stessa dell´immagine. Infatti è proprio nella natura dell´immagine il suo presentarsi sempre, a chi la sa comprendere, aperta, trasparente e insieme opaca, vicina e insieme lontana: nell´offrirsi all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessario tornare, al di qua del visibile rappresentato, alle considerazioni stesse dello sguardo, della presentazione. È questo non – sapere che l´immagine manifesta, e tuttavia tale non – sapere non è una condizione privativa, una mancanza, ma piuttosto una condizione positiva, come positivo è il “niente” dei quadri suprematisti di Malevic. Quindi l´iconoclastia del quadro bianco di Malevic annuncia non la fine dell´arte, ma ciò che l´arte deve essere, appunto, per considerarla tale.
Chi ha paura dell’Icona? di Rubina Giorgi
Ho sentito Carmine Limatola parlare di icona a proposito di questi suoi ultimi lavori. Ma è più che l’icona il caos, e si avvale del concorso dell’asfalto versato sulle grandi tavole, strade, sopra o sotto le quali prendono avvio e forma le figurazioni. Un caos ribollente e fertile d’intrichi di segni dove lacerti di storia artistica e di attualità s’incontrano, si urtano, s’intrecciano e uniscono in temporanee convivenze paradosse fino ad elidersi a vicenda e a dissolversi esibendo su tutto, su ogni gesto artistico, la potenza del caos. Cosa è dunque qui l’icona?
Io credo che sia la forza ultima delle immagini, che le distrugge, si distrugge, per riportarle alle loro forme prime, impossibili peraltro da attingere e vedere. Si possono solo presagire, immaginare, in immagini che appunto sono votate nei tempi delle opere umane a distruzione, non totale, diciamo pure a riduzione in materia energetica, pura o impura che sia, che darà luogo per un verso a nuovi cicli di formazione d’immagini ma per l’altro evocherà con minore o maggior potenza l’origine, la forma prima, Dio o gli dèi. Un andamento ciclico del fare e disfare umano e artistico che accosta gli initia rerum, la loro icona, l’icona che dunque si trova al principio e alla fine delle cose: e però ne resta per pochissimo eternamente, spietatamente lontano.
Nell’opera di Carmine senti parlarsi, comunicare tra di loro incessantemente gli artisti e le correnti artistiche del presente e del passato recente e quasi correnti fluviali e aeree che corrano al mare del loro disordine primordiale.
Ma il disordine o imperfezione svela un nucleo di perfezione acuminata, forse fittizia: il labirinto, dal quale nemmeno le voci fluide della storia e le fluide acque della vita sembrano poter trovare vie di liberazione, di fuga. è quel labirinto che già da alcuni anni sollecita l’attenzione e i sensi di quest’artista, che in guise diverse si confronta con esso. Viaggia in esso? Credo non sia un reale viaggio il suo, o forse è un viaggio immobile che rimescola le tracce dei viaggi umani e scopre come formi labirinto il loro stordente ripetersi. Il paradosso è che la creazione di Dio può così apparire imperfetta, caotica, e il viaggio umano, labirintico, può assumere le parvenze della perfezione imbattibile, giocosa e tragica a un tempo. Forse che l’icona seduce e inganna?
Rubina Giorgi
Il Metallo. Il Catrame. La Materia. di Francesco Durante
Fondali opachi duri come pietra. Da essi, evocata come per sortilegio alchemico, la vita risorge nel silenzioso respiro della memoria, riassunta nelle umili tracce del suo esserci. Abiti dismessi. Vecchie scarpe. Pezzi di spago e fildiferro. Brandelli di oggetti d’uso quotidiano, santificati nel gorgo dell’esperienza individuale e da quello riscattato per tornare a parlare nella misericordiosa evidenza dell’umano universale. Fino a che dal metallo, dal catrame, dalla materia, da quella nuda, adamantina opacità, la vita infine sgorga perfino in un guizzo di felicità intensa e redenta, nelle sicure pennelate, nelle campiture areose, nel luminoso colore dei fiori.
Nei venti grandi quadri di questo ciclo, Carmine Limatola celebra per l’appunto la libera felicità dell’arte, e lo fa nel nome di Joseph Beuys, del quale adotta l’inconfondibile immagine, quella risalente al 1971 del manifesto “La rivoluzione siamo noi”. Non è un’omaggio retorico, bensì il pegno di un grande insegnamento e di una lunga fedeltà, offerto in un misto di commozione è di rigore, di ridondante vitalismo e di asciutta, vigilata misura. Proprio la compresenza di questi due atteggiamenti nel prodigioso equilibrio fra quieto dominio dei materiali e appassionato, tumultuoso, caotico urgere della pressione poetica offre la chiave più convincente al senso utimo del lavoro di Limatola, che è sempre stato questa forma di serena ossessione, di compulsiva gioiosa tattile curiosità dei materiali, dalla tela al ferro alla ceramica alle risorse di un residuale che sa caricarsi, rigenerandosi, di sempre nuove densità.
Francesco Durante